Discorso inaugurale di Catherine Dunne al Pisa Book Festival 2016
Qualche tempo fa, in una bella giornata di ottobre piena di luce, sono andata in auto sino a Bellaghy, un piccolo villaggio nell’Irlanda del Nord. Sono almeno 220 chilometri da Dublino. Ho fatto questo viaggio per diverse ragioni. Prima di tutto perché qui sono le radici della mia famiglia, piantate ben in profondità nel ricco e contraddittorio suolo dell’Ulster. Poi perché nell’Irlanda del Nord vivono i miei migliori amici. Infine perché volevo visitare la casa di Seamus Heaney, poeta irlandese molto amato, Nobel per la Letteratura nel 1995.
La sua casa natale da poco è stata trasformata in un centro per le arti, dedicato alla vita e alle opere di Seamus Heaney ed è uno spazio tranquillo, quasi contemplativo. All’ingresso dei sedili di legno sembrano invitare il visitatore a sedersi e a sostare – una preparazione necessaria prima di entrare in questo fisico “spazio creativo”.
Una delle frasi che più mi piacciono di Heaney a proposito del mestiere e del mistero dello scrivere è questa: “ho capito che cosa vuol dire ispirazione, ma non come ottenerla…credo di sapere ora che attendere fa parte dello scrivere”.
Attendere. Ascoltare. Preparare lo spazio interiore dove la creatività fiorisce. Scrivere non è sempre solo l’atto in sé, ma è anche la pazienza di nutrire ciò che verrà, quando e se noi saremo pronti.
Mi è stato chiesto di parlarvi dell’importanza della letteratura per la formazione del senso di identità nazionale. Questo suggerimento è stato fonte di ispirazione per me, in un modo però imprevedibile. È servito infatti a illuminare di luce nuova le mie preoccupazioni di oggi e ha dato loro un respiro più ampio.
Cercherò di scavare a fondo nella relazione tra identità nazionale, la mia storia familiare e il posto che occupa la letteratura nella mia vita, una ricerca che si collega molto da vicino al mio recente viaggio nell’Irlanda del Nord di cui vi parlavo prima.
A metà degli anni Sessanta, prima che iniziassero tutti i problemi, adoravo andare nel Nord dell’Irlanda per visitare la famiglia di mio padre. Lo zio Dònal e la zia Eileen vivevano in una grande casa a Belfast, un po’ sconclusionata, una specie di santuario cresciuto in modo spontaneo a partire dai libri dello zio, dai quadri della zia e dalla loro musica.
Avevo solo dieci anni, eppure mi veniva concesso di leggere seduta nella loro biblioteca dove potevo persino sfogliare le prime edizioni di Dickens. Ho ancora il ricordo di quelle pagine spesse, gialline, dai bordi non precisi, e la copertina di pelle tra le mie dita.
Non potevo certo immaginare in quei lontani giorni che le nostre vite sarebbero state profondamente trasformate. Mentre passavo dall’infanzia all’adolescenza la casa degli zii a Belfast prendeva fuoco. All’improvviso in una drammatica notte d’agosto, quasi cinquant’anni fa, le fiamme accese dalla folla li obbligò a lasciare la casa e quella città così complicata per sempre.
Si rifugiarono nella soave sicurezza di Dublino, ma ho l’impressione che non si sentirono mai più a casa.
Negli anni che seguirono, dopo i disordini del 1968 e 69, io crebbi in un paese che aveva un’identità dilaniata. Al sud guardavano con sospetto a quelli del nord, e il nord si sentiva abbandonato da quelli del sud. Sfiducia e incomprensioni fiorivano in quegli anni, al nord come al sud. Era palpabile ovunque la divisione fra “noi” e “loro”, una frattura che trovava la sua piena espressione nei posti di blocco al confine tra l’Irlanda del Nord e l’Irlanda del Sud, posti di blocco controllati da giovani uomini che indossavano la divisa dell’esercito britannico.
D’un tratto capii come questa divisione entrava nelle nostre esistenze personali. Non si poteva più andare al Nord. Non avevamo più una famiglia laggiù e comunque il viaggio era diventato troppo rischioso. Il risultato fu che perdemmo tante amicizie, non andammo più a visitare le belle cittadine sul mare, e quel caldo senso di familiarità andò spegnendosi. Il confine diventò non solo fisico ma psicologico. E così rimase per almeno venti lunghi anni.
Nel frattempo a scuola e all’Università studiavo letteratura e mi accorsi che esisteva un altro confine. In quei giorni un visitatore capitato per caso in Irlanda avrebbe potuto pensare che il paese fosse popolato solo da uomini, perché quelle degli uomini erano le uniche voci che si facevano sentire in politica e in letteratura. Se questo era vero per l’Irlanda del Sud dove io ero nata, per l’Irlanda del Nord era una realtà ancora più drammatica, come diceva la scrittrice Lucy Caldwell.
Comunque anche al Sud, il paesaggio politico, sociale e culturale, era principalmente maschile e per di più cattolico, e c’era poco spazio per voci dissidenti e per prospettive diverse. Il posto della donna nella famiglia era tra l’altro ben definito nella nostra costituzione del 1937. I nostri capi politici e religiosi pensavano che le donne avrebbero dato il loro migliore contributo allo Stato rimanendo nella sfera familiare e allevando i figli.
Peccato che nessuno avesse chiesto alle donne il loro parere.
E così giovane donna negli anni settanta mi accorsi che esisteva un altro tassello nel mosaico dell’identità, un altro confine da abbattere. Io ero cittadina, e anche donna, e con poche eccezioni, questa esperienza, questa particolare identità non aveva la sua voce nella letteratura irlandese. L’Irlanda era soprattutto una società rurale, ancora negli anni settanta le città erano considerate un’anomalia, tollerate a mala pena, dove albergavano pericoli di ogni genere, pronti a sedurre gli ingenui, a corrompere gli innocenti.
Trascorsi alcuni periodi in Canada, mai troppo a lungo, ma abbastanza per riflettere sulla mia identità, su chi fossi e chi volessi diventare, perché anche le nostre identità personali sono in un continuo divenire. Durante questi soggiorni leggevo di continuo, in modo vorace, come mi capita quando devo dare espressione ai miei pensieri. Mi tuffai letteralmente nelle meravigliose biblioteche di Toronto e scoprii I libri di Margaret Atwood e Alice Munro. Attraverso loro arrivai a scoprire i romanzi di Carol Shields e immediatamente l’effetto di questo viaggio di scoperta fu sorprendente.
In quelle pagine risuonavano voci di esperienze nascoste, la cosiddetta vita domestica delle donne, i piccoli quadretti spesso derisi che sono stati la base della scrittura di Jane Austen. Anche nel lavoro di queste scrittrici canadesi si trovano le preoccupazioni familiari, le amicizie, l’amore e il sesso, temi come sopravvivenza e identità, che nella letteratura irlandese non erano stati mai trattati dal punto di vista femminile. C’era, è vero, anche Edna O’Brien che scriveva e che era la prova che esiste l’eccezione che conferma la regola, e che ancora oggi continua a dimostrarsi in ogni nuova sua opera una esploratrice sempre più audace dell’universo femminile. A ottant’anni Edna O’Brien scrive con una passione ed una eloquenza, e ha uno sguardo così penetrante sulle cose che non sempre viene apprezzati nel nostro paese. Ma non voglio parlare di eccezioni. Sto cercando di spiegare cosa significhi vederti inascoltata, trascurata, ignorata.
Come ebbe a dire Eavan Boland, meraviglioso poeta contemporaneo di Seamus Heaney, l’Irlanda ha avuto grandi difficoltà ad accettare qualsiasi tipo di femminismo.
Nel corso degli anni settanta una nuova ondata di femminismo stava comunque attraversando l’Atlantico, e le voci delle donne cominciavano a levarsi con una sincerità che sorprendeva. A quei tempi scrivevo molto, poesie e racconti, il mio lungo apprendistato di scrittrice, rifugiandomi nel mio studio una volta terminato il lavoro quotidiano. Il pensiero della pubblicazione, se mai mi venne, sembrava un orizzonte molto lontano. A quei tempi sapevo quale era il mio posto. E il mio posto, come la mia identità di donna, non era quello di occupare lo spazio pubblico che restava territorio maschile. Guardando indietro, sento ancora quella tipica domanda irlandese: chi credi di essere?
A quei tempi, voler diventare una scrittrice, tirare su la testa per guardare oltre il parapetto, scatenava l’incredulità, la derisione, un tangibile senso di disapprovazione perché evidentemente stavi andando oltre, e l’orgoglio è un peccato capitale per un cattolico irlandese.
Le cose sono cambiate. Il paesaggio letterario in Irlanda è molto diverso rispetto a quello di 40 anni fa. C’è stato uno tsunami di nuovi scrittori- decine di nuove e interessanti voci femminili stanno emergendo. Ma attenzione a non dormire sugli allori, noi donne dobbiamo sempre stare all’erta. Il Teatro nazionale, l’Abbey Theatre, proprio quest’anno ha escluso le opere delle donne dalla programmazione per il centenario della rivolta del 1916. Questa esclusione dal Teatro nazionale irlandese ha causato un’immediata reazione e la nascita di un movimento chiamato “Femministe Svegliatevi”. Ancora una volta per essere ascoltate abbiamo dovuto urlare e il direttore del Teatro si è scusato dicendo che non capiva cosa gli era venuto in mente. Se questa è una spiegazione!
Scrivere è importante. Le arti sono importanti. Ascoltare le diverse voci che formano la nostra identità nazionale è importante. Le voci di coloro che sono nati in Irlanda e quelle di coloro che nati altrove hanno deciso di vivere qui. Le voci delle comunità che sono state tenute ai margini per lunghi anni. Le arti sono un mezzo importante per esprimere chi siamo e chi eravamo. Non sono ammesse zone di esclusione.
E il discorso torna là dove era iniziato, torna ai confini, quelli fisici e quelli psicologici. La recente decisione della Gran Bretagna di lasciare l’Unione Europea, la Brexit, mette l’Irlanda davanti a un nuovo dilemma. La gente dell’Irlanda del Nord ha votato per restare nell’Unione, ma le loro voci non sono state ascoltate. Adesso i politici sbandierano parole come Hard Brexit e Soft Brexit e credono di conoscerne il significato, ma nessuno di noi lo sa, e neanche sa quali saranno per noi le implicazioni future. Quello che tutti temiamo è che ci sarà di nuovo un confine, Hard o Soft, tra L’Irlanda del Nord e l’Irlanda del Sud.
Dall’inizio del Processo di Pace il confine tra Nord e Sud era diventato irrilevante. Non c’era nessun segno fisico che mostrasse che le due parti erano separate. E quando il valore della sterlina scendeva rispetto all’euro, la gente andava in massa a fare la spesa dall’altra parte del confine in tutta tranquillità. La cooperazione tra una parte e l’altra della frontiera si estendeva a tutti i campi, negli affari, nelle arti, nello sport.
E proprio perché le arti contano, e la letteratura conta, gli scrittori stanno facendo ogni sforzo per incontrarsi, per aumentare il traffico culturale tra il Nord e il Sud. Per curare il passato, le vecchie fratture e per incoraggiare un nuovo senso di identità, che sia inclusivo, tollerante e aperto. Ritornare ad una frontiera tra noi sarebbe inconcepibile. Il confine deve essere permeabile.
Di recente è stata pubblicata un’antologia di scrittrici irlandesi dall’titolo Il Lungo Sguardo al Passato. Nel secondo volume, La Spiaggia di Vetro, uscito un mese fa, sono raccolte scrittrici del Nord, donne le cui voci sono state, secondo l’editor Sinéad Gleeson, trascurate e ignorate per anni.
Al lancio del libro la scrittrice Martina Devlin ha detto: La Spiaggia di Vetro demolisce l’idea che il Nord sia uno spazio estraneo. La sua estraneità è stata creata dal di fuori o assunta all’interno come forma di difesa.
È venuto il tempo di ribellarsi alla Estraneità. È tempo di cercare un senso condiviso di intenti e di identità. Noi Irlandesi siamo stati accusati di essere ossessionati dal passato, di essere incapaci di andare oltre i confini della nostra storia. È tempo di provare.
Catherine Dunne ha scritto questo discorso in occasione della quattordicesima edizione del Pisa Book Festival, dove l’Irlanda è stata Paese Ospite.
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