Si dice che la Sardegna non ha una grande tradizione urbana. Ed è vero, nel Mediterraneo dalle mille città sul mare. Appena fuori, ma anche negli interstizi delle conurbazioni urbane di Cagliari e Sassari, ancora oggi l’isola ha l’aspetto di un antico paese rurale, con una misère de la vie urbaine, come scriveva il geografo francese Maurice Le Lannou verso la metà del Novecento. Ma per Cagliari non vale. Questo luogo è città da almeno due millenni e mezzo. Cagliari è un luogo, naturale e umano, di una bellezza e suggestione grande e unica, un luogo dove sembra che la nostra isola decolli in volo su nel cielo e sopra il mare. Sarà perché anch’io il mare per la prima volta l’ho visto a Cagliari in Castello, affacciandomi al Bastione, che si chiama Il Bastione perché è il bastione che conta di più, quello di S. Remy, ed è da lì che si vede di più terra, cielo e mare, fino a confondere lontano cielo e mare. L’immagine del volo è anche una metafora della storia di Cagliari, per quanto è stata estranea al resto dell’isola, sempre in decollo per l’altrove.
La voglia di prendere il volo per un qualche altrove è suggestiva. E spinge a immaginare storie di se e ma, come immaginare cosa sarebbe stato di questa città, e dell’intera isola, se la sponda continentale da sempre più importante per noi, il Nordafrica, non si fosse allontanata per quasi un millennio e mezzo, da quando è diventata musulmana. Più realista, spesso controllo che aspetto ha Monte Urpinu, lo stato dello stagno di Molentargius con la dislocazione sempre varia dei fenicotteri rosa, le sfumature di colore delle saline che cambiano nella giornata e nelle stagioni e anche tra di loro, ogni vasca il suo, il grande Golfo degli Angeli e la Sella del Diavolo, il capo e le alture di Sant’Elia, di Calamosca, una luna di spiaggia del Poetto, da bianca adesso grigia perché le hanno fatto un guaio che dicono rinascimento: male, molto male, da qui lo vedo bene quanto è male, e che aveva ragione una mia nipotina lo scorso Natale quando nel presepio in casa ci ha fatto bene bene la spiaggia del Poetto, tutta bianca avorio caldo come prima, come un buon augurio di Natale, con sabbia buona presa di laggiù, dove non sono arrivati col ripascimento, sabbia per le zampine esili dei cammelli dei Re Magi, oro incenso e sabbia. Lentamente avvicino lo sguardo dal mare confuso con il cielo fino al grande golfo, al colle volpino dei pini, a San Benedetto, fino a qua sotto al Terrapieno. Giù nella passeggiata tra gli alberi di pepe c’è solo una donna che si porta a spasso un cagnolino peso piuma, al guinzaglio. Torno davanti al panorama. Chiudo gli occhi per il troppo sole e cielo e mare. E mi viene di ripensarlo qui di notte, il grande panorama: più carico di storia se lo guardo poco avanti l’alba, quando sono pochi i segni dei nostri tempi, quasi solo le luci elettriche. Ma resta sempre questa confluenza, questi tempi diversi in uno stesso luogo, davanti a me. Così mi pare. Così mi viene da pensare, se questo è pensare. Gli stagni, le saline, i colli, il mare, sono dei grandi buchi neri, tra luci in mucchio e in fila. Di notte e nei crepuscoli le grandi sagome del paesaggio sono quelle di ogni tempo, da quando qui occhi umani le hanno viste per la prima volta. E le hanno nominate.
Se adesso fosse qui un mio amico archeologo, lui mi direbbe che là sotto, certo, sicuro, proprio lì nel luogo che diciamo Darsena c’era a suo tempo il porto dei fenici, che prima c’era il porto nuragico, e prima ancora un approdo prenuragico, e poi più in qua magari c’era il porto punico, romano, vandalo, bizantino, giudicale, pisano, genovese, aragonese… savoiardo no, che c’entrano col mare i savoiardi? C’entrano anche loro, se era savoiardo il barone di Saint Remy che ha dato il nome a questo Bastione perché nel 1723 è sbarcato laggiù dove adesso c’è via Roma per mettere mano al regno sardo fatto savoiardo, qui nella capitale, che lui ha visto brutta e invece è bella, era bella, potrebbe essere bella, come già il luogo comanda prima e più dei suoi abitanti che forse non la amano ancora abbastanza, non l’amano abbastanza perché lei si faccia bella per loro, e per i sardi di tutti gli interni e di tutte le antiche e recenti provenienze, e anche nel ricordo di quei sardi che secoli fa si scacciavano ogni sera fuori dal Castello a suon di tromba, o a sonu ‘e corru. Se anche qui il futuro ha un cuore antico, il cuore è ancora triste di tre millenni di storia di arroccamenti di conquistatori proprio sempre qui, baluardo e via di fuga.
Dietro, verso Nord, oltre il colle e la rocca pisana di San Michele, ci sono ma invisibili, i paesaggi interni della mia infanzia, anch’essi così mediterranei a modo loro, cerealicoli. Qui, con davanti il mare sterminato verso l’Africa lontana, troppo lontana per troppo tempo, con dietro la Sardegna interna su fino al Gennargentu, a volte mi pare di poter chiarire tutto quanto al passato e al futuro, o almeno dai tempi delle mie necessità di correre e saltare, scavalcare muri a secco, scalare rocce e cime tonde per scoprire cosa c’è più in fondo e più lontano. Ecco cosa c’è più in fondo e più lontano: c’è Cagliari, dove la Sardegna spicca il volo sopra il mare. Qui tutto sembra già accaduto, ma tutto sembra possa ancora accadere. Tutto qui è antico e definito, tutto è nuovo e precario. Qui tutto si può ancora fare, così ben piantati nel passato. Specialmente se ci si accorge di quanto è bella Cagliari, che tutti i sardi chiamiamo Casteddu, che vola da sempre sul mare, non solo a volte nella classifica del campionato di calcio di serie A.
Cagliari è forse più antica di Roma. Da sempre mostra la lunga spiaggia del Poetto quasi dentro la città, i suoi colli e soprattutto il profilo variegato dell’acropoli di Castello, sul luogo migliore d’approdo del Golfo degli Angeli intronato di luce. Mostra anche i suoi tremila anni di storia, nel bene e nel male, e li mostra tutti: le necropoli puniche di Tuvixeddu e Tuvumannu, i resti romani dell’anfiteatro, della Villa di Tigellio, della Grotta della Vipera (dove una scritta funebre in greco ellenistico augura a una fanciulla morta che dalle sue ceneri nascano viole e gigli e possa ancora rifiorire in petali di rose, di croco profumato, dell’amaranto imperituro, e nei fiori soavi della violetta bianca, sicché come il narciso, come il mesto giacinto, anche il tempo avvenire abbia un suo fiore), la chiesa paleocristiana di San Saturno, tutte cose che si vedono dalla città murata medievale pisana coi bastioni e le due torri rimaste dell’Elefante e di San Pancrazio, così pisane che quasi la famosissima pendente a Pisa oggi sembra meno pisana.
Città mediterranea tra le più belle, come sa chi in Castello si fa le stradine medievali, col colore locale al posto giusto, in mattinate di gran luce, quando il maestrale ripulisce l’orizzonte, il maestrale che lassù non manca mai, o almeno la brezza di mare che arriva ogni giorno spavalda, e pare incredibile che le sirene delle navi a quell’altezza si sentano più chiare che giù nel porto, coi loro gemiti potenti di malinconia, mentre precipita giù verso il mare la geometria disordinata di edifici e strade antiche in giochi d’ombra e sole.
Per quanto tempo sarà ancora una sorpresa, questa città, perché nessuno se l’aspetta così?
Sali in Castello, magari su per le scalinate del Bastione di S. Remy, o su da Piazza d’Armi per aprirti visioni sconfinate: il grande Stagno di Santa Gilla, lo stagno di Molentargius e i riquadri di mare delle saline. Puoi avere la fortuna di assistere a un volo di fenicotteri. O intravvedere col binocolo l’umido lavoro dell’arsellaio che gratta il fondo basso con tecniche di pesca collaudate da millenni. Ma è anche quassù, obbligato a guardarti intorno vicino e lontano in giochi di ombre cupe e luci immense, che incominci a sentire ciò che tutta la Sardegna suscita in chiunque, già quasi stereotipo: sublime dei primordi, silenzio, solitudine, spazi selvaggi e non contaminati. Ma qui, in più, millenni di storia, e anche più di preistoria.
Quando una città sa conservare i suoi ricordi, attraversarla è come attraversare il tempo, specie qui in alto. Ci sono luoghi che restano ma non ci sono più. Diventano altro. Possono restare solo nei vari modi di conservare traccia del passato. Bisognerebbe ricordarli tutti, anche questi luoghi, come le persone e i fatti memorabili, se no è come se non fossero mai esistiti. Però dicono molto, se si ricordano, e rivivono ogni volta in modo nuovo.
Uno di questi per me a Cagliari si vede da un paio di luoghi a Sud-Ovest qui in Castello: è il primo breve tratto di Corso Vittorio Emanuele, che incomincia in Piazza Yenne facendo angolo col Largo, che è storicamente l’inizio della statale 131, la Carlo Felice, come di molte altre vie sarde. Credo che prima, nei secoli passati fino al Novecento, quello fosse il luogo di arrivo, di sosta e di partenza dei cavalli da sella, delle diligenze e dei carri da e per i paesi vicini e lontani, magari fino a Sassari, così com’è stato per i decenni centrali del Novecento il luogo di arrivo, di sosta e di partenza dei “noleggiatori”, delle auto stipate di gente che arrivava molto presto dai paesi e ripartiva tardi la sera, donne uomini ragazzi, dopo una giornata di compere, di ospedali, di avvocati e tribunali, di visite a parenti e di tutte quelle cose che i paesani dovevano fare in città, nel bene e nel male. Solo di recente, quando non c’erano già quasi più, ho saputo che i cagliaritani spocchiosi chiamavano cabillac quelle automobili stipate di cabillus che facevano sosta in su Cursu. Contadini e pastori che arrivavano carichi di cose di campagna da regalare in città e ripartivano con cose di oltremare comprate a caro prezzo nei negozi di città. I più importanti stavano lì intorno, a incominciare da La Rinascente laggiù in via Roma e più in là dai grossisti di viale Trieste. Io sono stato uno di quei cabillus, di quei biddunculus. E ho il dovere di ricordarlo, innescando magari il ricordo di altri, che possono farlo a modo loro, magari da quassù, passeggiando per viale Buon Cammino avanti e indietro, o su e giù per i due ascensori pubblici che servono il Castello dal Terrapieno. E che anche i più giovani sappiano del luogo delle cabillac.
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